27 Feb Dipendenza da lavoro: Lavoro dunque sono
Indipendentemente dal fatto che tu svolga un’attività manuale o intellettuale, di alto o di basso profilo, il lavoro occupa uno spazio abnorme nella tua vita? La tua giornata lavorativa non ha orari? Ti capita di lavorare anche dopo cena e durante i week end? Ricevi e fai mail e telefonate di lavoro 24 ore su 24? Anche se sei in ferie, in permesso o in malattia, non puoi fare a meno di comunicare con clienti, colleghi o collaboratori? Sei il tipo di persona che non riesce a godersi pienamente un momento libero perché si sta divertendo anziché lavorare? Se la risposta è sì, anche tu fai parte della folta schiera dei “laboro ergo sum” , cioè lavoro quindi sono.
Lavoro sano e lavoro malato
Il lavoro è e deve essere centrale nella vita delle persone in quanto ha un impatto determinante sul benessere generale dell’individuo e della sua famiglia. Non solo per ragioni economiche ma anche e soprattutto perché alimenta la propria autostima e permette di mantenere uno status adeguato alla società in cui viviamo ed al posto che occupiamo o che vorremmo occupare .
Ci sono però persone che vanno oltre il sano senso di responsabilità e non riescono mai a staccare completamente dal loro lavoro, neanche quando sono in vacanza dall’altra parte del mondo. Questo crea stress per cui si cerca sempre di essere presenti nonostante l’assenza fisica, leggendo le mail, telefonando pressantemente ai colleghi per essere informati, esercitando una forma quasi ossessiva di controllo dell’operato dei collaboratori.
Tra l’altro, rimuginare su improbabili catastrofi che potrebbero succedere in nostra assenza non ci aiuterà certo, al nostro rientro, a risolvere eventuali ipotetici problemi!!
Inoltre il nostro atteggiamento ipercontrollante blocca l’autonomia decisionale dei collaboratori. Risultato? Il carico di lavoro ed il nostro stress aumentano generando ansia da prestazione. Per tenere a bada l’ansia siamo spinti ad aumentare l’ipervigilanza
su tutto e su tutti. Poiché è umanamente impossibile tenere sempre il controllo su tutto e tutti, il livello e l’intensità dell’ansia non possono che continuare a crescere. Sì innesca così un circolo vizioso da cui non è facile uscire. Se rimaniamo sempre connessi con il lavoro anche quando siamo a casa, in spiaggia o al ristorante, significa che siamo lontani con il corpo mentre la mente è sempre lì. Questo ci impedisce di vivere il qui ed ora e di sintonizzarci con gli altri.
Queste persone soffrono di una forma particolare di ansia: l’ansia da separazione dal lavoro. L’ansia da separazione dal lavoro porta a credere che l’intera macchina lavorativa possa collassare senza di noi, anche se siamo solo un piccolo ingranaggio di una sistema complesso. Nella cultura anglosassone si parla di work addiction. Cioè l’ossessione per il lavoro viene considerata alla stregua di tutte le altre dipendenze (droga, alcol, cibo, sesso, gioco d’azzardo, ecc).
Il persistere su questo fronte rischia di trasformare l’attività lavorativa in compulsione. Infatti, i comportamenti diventano compulsivi quanto non sono finalizzati allo svolgimento di un compito ma rispondono soprattutto alla necessità impellente ed improrogabile di soddisfare il bisogno di riconoscimento e di rassicurazione.
In altre parole, il lavoro diventa compulsivo quando non è più governato dall’Io razionale ma dalle nostre emozioni, ad esempio dalla paura. Paura di perdere il controllo, di non essere all’altezza, di non fare abbastanza, di non soddisfare le aspettative degli altri, di non raggiungere il nostro ideale di perfezione, di essere giudicati, ecc.
Come uscire dal circolo vizioso?
Per interrompere questo circolo vizioso, dobbiamo innanzitutto diventarne consapevoli. Fermarci un attimo a pensare quanto e come la troppa devozione al lavoro impatta sul rapporto con il partner, con la famiglia, con gli amici . Talvolta è necessario che sia qualcun altro a farci notare quanto il nostro atteggiamento sia controproducente. Purtroppo tale consapevolezza spesso arriva quando, oltre alla nostra vita, roviniamo anche quella dei nostri cari.
Nei casi in cui l’abnegazione totalizzante è un valore aziendale e la maggioranza vi si adegua, è più difficile percepire esattamente la portata del problema. Il nostro atteggia-
mento ci appare quasi o del tutto normale e consono alla situazione. Ma cambiare non è impossibile. Al limite possiamo cambiare azienda.
Il passo successivo alla presa di coscienza è impegnarsi attivamente per mettere in pratica strategie di distanziamento dal “lavoro quindi sono”. Ad esempio, possiamo pensarci impegnati in azioni o attività extra lavorative che abbiano una valenza piacevole e valorizzante su noi stessi e sulla nostra vita. Anche cose semplici e banali, come fare la spesa, aiutare il figlio a fare i compiti, giocare con loro, fare shopping con le amiche… Possiamo riscoprire chi eravamo prima e chi siamo al di là del lavoro, incrementando così le nostre risorse e talenti.
Quando la buona volontà non basta
Intervenire sul comportamento è utile ma può non essere sufficiente per operare cambiamenti duraturi. Infatti, il nostro modo di pensare ed agire è la manifestazione esterna di un sistema di credenze e di schemi comportamentali interiorizzati. Sistema che a sua volta è generato e rinforzato da dinamiche intrapsichiche ed interpersonali. Queste dinamiche preconscie o inconscie spesso sono la manifestazione esteriore, la riedizione oppure lo strascico di problematiche attuali o non completamente risolte. In genere derivano dall’infanzia o dall’adolescenza e rispecchiano modelli genitoriali o famigliari disfunzionali.
In tal caso è necessario chiedere aiuto ad uno specialista. Lo psicologo ci guiderà a rivolgere l’attenzione dentro di noi ed a porci delle domande. A contattare la nostra interiorità per differenziare il nostro Sé reale (come siamo e come ci vediamo) dal nostro Sè ideale (come pensiamo di dover essere). A metterci in ascolto del nostro dialogo interno per coglierne i pensieri disfunzionali, del tipo “devi essere perfetta” “non puoi dire di no” “sbagli sempre” cercando di controbilanciarli con pensieri positivi del tipo “posso farcela” “ho fatto del mio meglio” “non ho bisogno di dimostrare il mio valore” ecc. L’obiettivo è ricomporre un’immagine di sé più equilibrata perché basata più sull’essere che sul fare (lavorare) e sull’avere (riconoscimenti esterni).
Nella mia pratica clinica incontro molti casi ove la dipendenza da lavoro risulta essere il sintomo di un malessere più profondo. L’identificazione con il lavoro può essere un’efficace armatura per non vedere e non mostrare le nostre parti fragili e dolenti e per proteggerci dalle emozioni, anche positive.
Ad esempio il super lavoro può coprire: il bisogno di evadere dalla famiglia , l’evitamento dell’intimità , la fuga dal legame per paura dell’abbandono, l’ incapacità a svolgere il ruolo materno o paterno, a stare in contatto con il dolore per un genitore o un figlio malato, il bisogno di approvazione o di espiazione, ecc. Senza contare i sensi di colpa per le conseguenze sulla salute psichica dei figli nonché della coppia. Oppure la solitudine e i rimorsi per aver messo la carriera al di sopra della vita privata rinunciando al grande amore.
FISSA UN APPUNTAMENTO CON LA DOTT.SSA TROMBONI PRESSO LA SEDE DI MONZA
Coloro che desiderano un aiuto psicologico per affrontare una dipendenza da lavoro possono contattare la dott.ssa Loredana Tromboni psicologa, psicoterapeuta, psicoanalista a Monza e Desio .
cell. 347 3301128 loredanatromboni1@gmail.com