07 Mag SOSTEGNO PSICOLOGICO IN CARCERE
SOSTEGNO PSICOLOGICO IN CARCERE
Dentro il carcere, fuori dal setting
Prenderò in esame il mio lavoro all’interno di un carcere, per quanto riguarda i cosiddetti colloqui di sostegno psicologico. Cercherò di analizzare le modifiche e gli aggiustamenti che ho apportato alla tecnica psicoterapeutica ad indirizzo psicodinamico, per adattarla a questo particolare contesto clinico.
In particolare intendo riflettere sulle condizioni relazionali e di setting nelle quali io mi trovo ad operare (condizioni in parte da me stabilite scientemente, in parte predeterminate dal contesto e delle quali, a volte ho fatto di necessità virtù), nonché sulle relative implicazioni clinico-metodologiche.
I colloqui di sostegno psicologico vengono effettuati su richiesta diretta del detenuto oppure su segnalazione della Direzione. Quest’ultima condizione si verifica quando un detenuto manifesta sintomi di disadattamento che il sistema penitenziario non riesce a contenere con gli altri strumenti a sua disposizione, cioè la repressione, la terapia psicofarmacologica ed il cosiddetto trattamento intramurario (corsi scolastici, formazione professionale, lavoro ecc.).
In genere trattasi di comportamenti che mettono a rischio l’incolumità del detenuto, ma soprattutto la sicurezza della struttura carceraria. I più diffusi sono: sciopero della fame, azioni autolesionistiche, reiterati comportamenti d’indisciplina ed insubordinazione. È chiaro che, attraverso la richiesta esplicita di curare il malessere del detenuto, è l’Istituzione che chiede un aiuto per ristabilire il proprio equilibrio.
I detenuti stessi possono richiedere spontaneamente i colloqui di sostegno psicologico senza veti di sorta, se non l’indisponibilità dello psicologo che ha ampi margini di discrezionalità in merito ai modi ed ai tempi di risposta. I motivi per cui i detenuti richiedono la presa in carico dello psicologo (escludendo quelli esplicitamente strumentali) non sono molto diversi da quelli dei pazienti liberi che accedono a qualsiasi servizio o studio privato (disturbi psicosomatici, difficoltà relazionali con i familiari, problemi di identità, ecc.). Tuttavia anche in questo caso non sempre siamo in presenza di una domanda d’aiuto autentica, cioè soggettivamente determinata.
Il problema della soggettività della domanda di aiuto riguarda anche gli altri contesti clinico-psicoterapeutici. Si pensi, emblematicamente, ai trattamenti psicologici prescritti dal Giudice minorile ai genitori “inadeguati” per recuperarli alla loro funzione genitoriale, oppure ai pazienti ipocondriaci o psicosomatici che dopo aver peregrinato per ospedali e studi medici vengono “mandati” dallo psicologo quale ultima spiaggia.
In carcere quali specificità assume?
Il detenuto si trova privato della libertà personale in una condizione dove anche il più piccolo spazio di autonomia è oggetto di negoziazione con l’Istituzione. Se pensiamo al fatto che, in base alla legislazione attuale, non esiste la certezza della pena (e nei fatti nemmeno la certezza che i diritti del detenuto sanciti dall’Ordinamento Penitenziario siano rispettati), è facilmente immaginabile come anche il recluso meno esperto ponderi accuratamente ogni propria iniziativa in funzione del vantaggio che gliene potrebbe derivare (lavoro interno, permessi premio, sconti di pena ecc.). “Fare i colloqui con lo psicologo” è effettivamente utile al raggiungimento di tali obiettivi poiché fa parte del processo rieducativo. Deve inoltre considerare le ripercussioni sulla propria immagine agli occhi degli altri detenuti (elemento determinante per la “sopravvivenza” in carcere). La presa in carico psicologica non sembra essere significativamente influente sui rapporti di forza all’interno del gruppo dei detenuti, anche se andrebbero fatti dei distinguo, in base alle tipologie criminologiche ed al livello di adesione del singolo al codice della sottocultura delinquenziale, che però ci allontanerebbero dal tema che stiamo trattando.
Lo psicologo deve pertanto fare i conti con il rischio di essere strumentalizzato dal detenuto attraverso una domanda di aiuto ambigua ed a volte insincera.
Un altro elemento da prendere in considerazione è la rappresentazione che il detenuto ha dello psicologo penitenziario. Rappresentazione che poggia sull’ambiguità insita nella sua funzione di Esperto consulente dell’ Amministrazione Penitenziaria, ma che, come abbiamo visto sopra, è “a disposizione” dei detenuti.
Se nei casi estremi lo psicologo può essere vissuto dai detenuti come la longa manus dell’Istituzione (“mi fa parlare e poi va a raccontare tutto in Direzione”), normalmente è considerato come la sua interfaccia “buona” (contrapposta a quella “cattiva” rappresentata dagli agenti di custodia) di cui però è bene “fidarsi ma non troppo”: In ogni caso vista come “un’opportunità da sfruttare”.
L’analisi della domanda d’aiuto risulta pertanto più laboriosa rispetto ad altri ambiti clinico-terapeutici, dove il contesto non è cosi massicciamente invasivo .
Questa premessa ci porta ad interrogarci sul concetto di alleanza terapeutica.
Per alleanza terapeutica intendo lo stabilirsi di una relazione asimmetrica nei ruoli ma alla pari per quanto riguarda la dignità della persona e la condivisione del senso della relazione stessa, cioè l’incontro di una certa sofferenza nel paziente e della volontà di porvi rimedio da parte dello psicologo.
I concetti di parità e dignità della persona possono risuonare paradossali essendo riferiti ad un individuo che non solo si trova “ristretto” in un contesto che ne elicita la spersonalizzazione e l’omologazione, ma soprattutto che è stato giudicato immeritevole, anche se temporaneamente, di vivere nella società libera. Inoltre, il concetto di asimmetria dei ruoli è rinforzato dalla condizione di libertà di cui invece il terapeuta gode. E’ quindi lecito chiedersi che implicazioni ha, all’interno di questa cornice coercitiva, l’offerta di uno spazio – quello terapeutico – ove esprimersi “liberamente” e con un interlocutore che, ancor prima di porsi come un donatore di senso, è (o dovrebbe essere) sinceramente interessato ad ascoltar lo cercando di entrare in sintonia empatica con lui (“…il calore emotivo è una componente necessaria della relazione terapeutica…”)
“E’ essenziale che vi sia interesse per la situazione particolare del paziente”
Teniamo inoltre presente che stiamo parlando di persone deprivate. Con questo termine mi riferisco agli studi di Winnicottt che vedono nella deprivazione primaria “l’origine del comportamento antisociale, inconsciamente finalizzato a recuperare l’oggetto buono perduto”. Per loro questo incontro potrebbe rappresentare un’esperienza nuova e forse unica.
Quale setting in un contesto che si contraddistingue per la sua rigidità e sovradeterminatezza, non solo verso il recluso/paziente ma anche verso lo psicologo/terapeuta?
E’ illusorio (e soprattutto pragmaticamente non utile) pensare di poter rimuovere gli elementi “disturbanti” per ottenere un setting sulla falsariga di quello privato. Facendo di necessità virtù, tali elementi possono rappresentare un valore aggiunto nel momento in cui vengono trattati nell’ hic et nuc della relazione terapeutica. Non perdere di vista la cornice in cui si situa il setting permette inoltre al terapeuta di mantenere la propria posizione ancorata alla realtà e, a livello controtransferale, di mettersi al riparo da pericolose identificazioni. Ad esempio, di fronte ai limiti imposti dal suo essere un operatore penitenziario, lo psicologo potrebbe colludere od allearsi apertamente con il detenuto contro “l’Istituzione cattiva”. Viceversa, potrebbe identificarsi con “l’Istituzione buona” contro il detenuto millantatore e manipolatore che ne scardina gli equilibri. Identificazioni che, peraltro, colluderebbero con la patologia dello stesso detenuto. Molto spesso i detenuti -che sono tali perché hanno violato la Legge- hanno un funzionamento mentale carente o inaccessibile ai processi di simbolizzazione e quindi sempre a rischio di passaggio all’atto.
La persona che chiede un primo colloquio in un qualsiasi contesto, compreso il carcere, si presenta al suo interlocutore come “colui che ha problemi mentre l ‘altro (psicologo, psichiatra, terapeuta) è colui che deve risolverli”. Diverso è invece il luogo in cui questo incontro avviene. Infatti se la consultazione psicologica “sia che avvenga in ambito pubblico che privato, si svolge sempre in un luogo connotato come terapeutico”, in carcere le sedute hanno luogo in uno spazio privo di una funzione predefinita. In genere i colloqui si svolgono in una stanza, situata in un’area prospiciente alle celle, adibita a vari usi. Quindi in uno spazio che non può nemmeno definirsi neutro. Poiché la porta, per ragioni di sicurezza, deve rimanere aperta non c’è una delimitazione spaziale completa e protetta da incursioni esterne. Si verifica quindi una condizione di privacy relativa consumata in uno spazio-tempo che il terapeuta non può presidiare in toto. Tuttavia questi elementi, se all’inizio sono di disturbo, col tempo finiscono col favorire l’intimità dell’incontro proprio in virtù dei reciproci sforzi (del paziente e del terapeuta) tesi ad escludere percettivamente gli stimoli estranei al contatto duale. La porta aperta, in fondo, ha una sua funzione simbolica precisa e coerente: sembra segnalare che non c’è soluzione di continuità tra il setting (la coppia psicologo-detenuto) e l’esterno (il terzo).
La predeterminazione e stabilità dell’orario e della durata delle sedute è un concetto che -tranne rare eccezioni- accomuna la psicoterapia alla psicoanalisi. In un contesto dove anche gli operatori in una certa misura sono “prigionieri” di un organizzazione spazio-temporale sovradeterminata, tale condizione non è realizzabile se non in termini molto poco precisi e puntuali. Mi è sembrato quindi opportuno fissare gli appuntamenti in un range temporale di due giorni possibili della settimana, poiché questa vaghezza forse è meno pericolosa del rischio -sempre presente- di mancare la seduta per impedimenti esterni senza avere la possibilità di avvertire il detenuto.
Anche il tempo di durata (45′) non è rigido, ma può variare per motivi indipendenti dalla volontà del terapeuta.
Questa flessibilità strutturale crea alcune implicazioni sul piano processale. Ad esempio, assenze o ritardi possono comportare vissuti persecutori nei confronti del terapeuta e, sul versante interpersonale, la sua assimilazione al potere carcerario, a discapito del riconoscimento della sua funzione terapeutica .
La frequenza (settimanale o quindicinale) risulta quindi l’unico elemento rigido del setting, anche se può verificarsi l’opportunità (o la necessità, nel caso sia l’Istituzione a richiederlo) di effettuare sedute “d’emergenza” in occasione di episodi particolari (gravi atti di autolesionismo, provvedimenti disciplinari, ecc.).
Più che di frequenza (del paziente), è più esatto parlare di presenza (del terapeuta) poiché, a differenza di quello che avviene all’esterno, qui è il secondo che si reca -o non si reca- dal primo.
Se un paziente libero ha a sua disposizione tutta una gamma di atti mancati che gli permettono di disertare le sedute (e che offrono ricchi spunti interpretativi al terapeuta), il detenuto, nel momento in cui viene “chiamato a colloquio”, è costretto a decidere coscientemente se accettare o rifiutare. Il terapeuta, si ritrova quindi con un setting depotenziato per quanto riguarda la comprensione degli agiti del paziente.
La sua attenzione deve quindi potersi estendere ai comportamenti extra setting e nello stesso tempo concentrarsi sui movimenti transferali nell’hic et nunc della seduta. Ad esempio, più volte mi sono trovata di fronte a veri e propri agiti squalificatori attraverso i quali il detenuto mira ad assumere il controllo della relazione, come a volte sono l’omissione del titolo di dottoressa o addirittura il passaggio dal lei al tu.
Poiché, come abbiamo visto, i dispositivi fisici che delimitano e connotano il setting sono più deboli, quelli simbolici (i rispettivi statuti e ruoli sociali) acquisiscono maggior importanza e quindi vanno difesi con la massima fermezza. Fermezza che si è rivelata utile quando viene accompagnata sia da spiegazioni di realtà (atteggiamento pedagogico) che con interpretazioni (atteggiamento analitico).
Riprendo il concetto dell’ambivalenza del ruolo dello psicologo penitenziario per chiedermi: che cosa ne è dei concetti di neutralità e di astinenza?
La neutralità non può esserci perché lo stesso, proprio in virtù della sua appartenenza all’Istituzione, fa parte della realtà esterna al setting indipendentemente dal suo astenersi o agire al di fuori del setting stesso.
Lo psicologo penitenziario si trova spesso ad intervenire attivamente sull’ambiente reale del detenuto (esprimendo valutazioni diagnostiche e prognostiche, partecipando alla formulazione del “programma di trattamento individuale”, confrontandosi con operatori di servizi esterni, ecc.). Si potrebbe fare un parallelo con la psicoterapia infantile, ove il terapeuta (sia in fase di consultazione che di terapia entra giocoforza nel mondo reale del bambino interagendo attivamente con genitori, in segnanti, ecc.) Questo parallelo mi sembra pertinente perché, così come il bambino è dipendente dall’adulto, il detenuto è per definizione dipendente dall’Istituzione che lo priva della libertà.
Del timore di peccare di interventismo mi conforta l’originale pensiero di Masud Khan, che sulla differenza tra psicoterapia e psicoanalisi, dice:
…la prima l’ho appresa da mio padre tra i nove ed i diciannove anni: si prende va cura – in modo davvero globale – dei nostri contadini … ci sono tutta- via dei periodi, anche durante un ‘analisi , nei qual i ritengo utile ridurre o interrompere il lavoro di interpretazione e intensificare il lavoro psicoterapeutico. Questo implica concordare in modo esplicito con il paziente la gestione …coinvolgendo inevitabilmente la sua famiglia e i suoi amici.
Sul piano della tecnica, questa aneutralità, comporta una maggiore attività e direttività nonché l’utilizzo della focalizzazione, elementi che caratterizzano la psicoterapia breve nei suoi vari modelli.
Ad esempio, lo psicologo può trovarsi sopraffatto dalle lamentazioni del detenuto su soprusi, inadempienze ed inefficienza dell’amministrazione carceraria. Poiché il paziente parla di problemi che il terapeuta conosce direttamente, lo stesso può rinunciare all’astinenza ed esprimere, con cautela e sobrietà, il proprio pensiero in merito. Questo svelamento, oltre a rinforzare il legame di fiducia, facilita gli interventi successivi di marca più propriamente “terapeutica”. Dopo un’adeguata convalidazione empatica dello stato emotivo del detenuto potrebbe passare al confronto sui suoi sentimenti di rabbia, intervento che consentirebbe al paziente un insight sul proprio mondo emozionale. Insight tanto più significativo in quanto agisce su persone che possono
“ …utilizzare le parole e le azioni non per comunicare ma per controllare, possedere, sottrarre, ferire, sopraffare…”
La focalizzazione è necessaria anche perché la terapia può interrompersi in qualsiasi momento per decisione di altri (trasferimenti in altro Istituto o scarcerazione improvvisa). Può essere utile concordare un focus da trattare in un certo numero di sedute con l’accordo che l’intervento potrà concludersi lì o continuare sulla base di valutazioni fatte insieme. Questa “accortezza” non risolve la maggior problematicità nel gestire la separazione dal terapeuta. Poiché il tema dell’abbandono (che, verosimilmente, ha segnato la vita del detenuto sia in senso deviante che psicopatologico) è conflittualmente vivo sia come desiderio (di libertà) che come minaccia (essere separato dal terapeuta), le interpretazioni e i confronti devono essere più attive e tempestive. Privilegiando l’hic et nunc della relazione paziente-terapeuta consentono “…di esplorare ed analizzare i sentimenti provati nei confronti del terapeuta, connettendoli a sentimenti…vissuti rispetto a persone significative della vita attua le o passata del paziente”
L’art. 27 della Costituzione recita “…la pena deve tendere alla rieducazione del condannato”. Senza voler entrare nel dibattito sull’efficacia del carcere come strumento di riadattamento sociale, è indubbio che il sistema penitenziario, almeno per molti aspetti, sembra misconoscere tale finalità. Un solo esempio: la Polizia Penitenziaria rappresenta la quasi totalità del personale ministeriale che entra in contatto diretto con i detenuti (gli operatori civili -educatore, assistente sociale, psicologo/criminologo – non raggiungono il 2%) e conta un numero di unità superiore a quello della popolazione carceraria (l ,2 agenti di custodia per ogni detenuto). Per sua cultura è pregiudizialmente ostile a qualsiasi intervento trattamentale, perché considerato incoerente con la funzione repressivo-punitiva del carcere. Questa posizione è rinforzata dall’alto tasso di recidività. Tali elementi sono sorprendenti se consideriamo l’entità delle risorse pubbliche e del privato-sociale coinvolte nei numerosi e svariati progetti finalizzati al reinserimento sociale (scuola e formazione professionale, laboratori e corsi di ogni tipo, attività ricreative e lavorative, ecc.), la cui efficacia ed efficienza, peraltro, è spesso vanificata dalla mancanza di coordinamento e controllo.
Lo psicologo si trova quindi immerso in un contesto contraddittorio ed a volte paradossale. Questa puntualizzazione ci aiuta a comprendere qual è lo zoccolo duro controtransferale su cui si innestano e con il quale interagiscono gli elementi transferali ‘normali’, cioè legati alla relazione duale. Per fare un esempio, sono sempre presenti con intensità variabile sentimenti di impotenza e frustrazione fino al senso di complicità con un potere il cui fine ultimo sembra essere l’autoperpetuazione .
Questa condizione di “debolezza” aumenta nel terapeuta il rischio di essere manipolato dal detenuto, perché può colludere con il suo “fisiologico” atteggiamento vittimistico e persecutorio. Atteggiamento (peraltro sostenuto dalle teorie socio-eziologiche della devianza che informano tutto il pensiero giuridico-pedagogico contemporaneo) che rallenta qualsiasi movimento autoresponsabilizzante e quindi afferente alla posizione depressiva, conditio sine qua non per realizzare un cambiamento interno.
Se il fine -e lo strumento insieme- della psicoterapia è portare il paziente a riflettere e simbolizzare, per il detenuto questo intervento dovrebbe risultare scontato (e quindi dovrebbe essere esplicitamente contemplato dal programma di trattamento individualizzato) in quanto, come detto sopra, i comportamenti che l’hanno portato in carcere (vuoi l’atto delittuoso vuoi l’abuso di sostanze) sono molto spesso dei veri e propri agiti.
Il carcere è un’istituzione totale dove la vita condotta in regime di libertà viene interrotta.
Il detenuto si trova inserito in un “dentro” governato da regole di comportamento rigide ed assolute e da rapporti interpersonali basati sulla gerarchia e sul dominio che, mutatis mutandis, sono propri sia della sottocultura delinquenziale sia della stessa Istituzione demandata a sanzionarla e rimuoverla. Un “dentro” che paradossalmente rispecchia e legittima i comportamento illeciti compiuti nel “fuori”.
Questa condizione, oltre a risultare antitetica al concetto di cambiamento tout court, interferisce con la possibilità per il detenuto -anche laddove la psicoterapia fosse concretamente realizzabile- di sfruttare la ridondanza di “tempo per pensare” per intraprendere un percorso di risignificazione della propria vita.
Ed è veramente un peccato perché -in un epoca dove da più parti si grida alla perdita del padre come causa della crisi della società (nonché del dilagare dei disturbi narcisistici versus quelli nevrotici classici) -il carcere, essendo fondato sull’obbedienza e sull’adattamento ad un insieme di norme e regole punitive, è la rappresentazione simbolica del padre (colui che sancisce la Legge). Nella sostanza questo luogo simbolo, da un lato offre elementi di tipo materno finalizzati a mitigare la sanzione, quali l’umanizzazione della pena e le misure alternative alla detenzione, fino a stravolgere la sanzione stessa. Sul versante paterno solo raramente riesce a svolgere una funzione realmente normativa e quindi trasformativa. In altre parole, non agisce a monte del comportamento antisociale che si crea e di alimenta sui disturbi nella formazione e nel funzionamento del Super-lo.
Ritorno per concludere, al tema centrale di questo contributo, cioè alla spendibilità del sapere e del saper fare psicoanalitico all’interno del carcere.
Abbiamo visto come questa realtà sia fondata su vere e proprie antinomie strutturali che rendono difficile coniugare la sanzione con la riabilitazione e come sia il detenuto e lo psicologo penitenziario, siano attraversati da ambivalenze che rendono difficile creare una buona alleanza terapeutica, elemento fondante della psicoterapia come di qualsiasi relazione di cura. Anche quell’esigua minoranza di detenuti che pongono allo psicologo una domanda d’aiuto “pertinente”, cioè di essere aiutati non attraverso cose od azioni ma attraverso la parola e quindi il pensiero, deve fare i conti con il fatto di trovarsi reclusa contro la propria volontà ed in compagnia di un pensiero compulsivo, quello della libertà, che domina e scandisce ogni istante della giornata. Per il detenuto diventa problematico investire su di un compito che non solo non gli procura un benessere immediato (se non quello di godere di un momento sociale altro dall’ossessiva ripetitività dei discorsi tra detenuti), ma che gli richiede di porsi in una prospettiva di ampio respiro, sia in termini temporali che “spaziali”.
La psicoterapia è un processo che avviene durante un periodo di tempo collega eventi, sentimenti, pensieri e credenze apparentemente non collegati”
Prospettiva che mal si concilia con i ristretti orizzonti di una cella.
Per contro, abbiamo visto come il pensiero psicoanalitico sia prezioso per comprendere ed interpretare un contesto così ricco di valenze simboliche positive. Valenze che se riconosciute e portate alla luce -ma soprattutto se isolate da uno scenario strutturale e organizzativo perverso- permetterebbero di restituire al detenuto il senso della sua reclusione. Abbiamo anche visto come sia presente la consapevolezza del proprio malessere psichico ed una conseguente domanda di cura. Come l’approccio psicodinamico sia utile ed opportuno per “riattivare” i processi di simbolizzazione quindi per sviluppare “la capacità di pensiero, non solo su i propri bisogni ma anche sugli effetti che ogni azione individuale ha sulle altre persone…”. Oppure per permettergli di sperimentare una modalità relazionale per lui inedita che, anche senza proporsi come esperienza relazionale correttiva e quindi in una veste psicoterapeutica in senso stretto, rappresenta pur sempre una stampella per “le claudicanti spinte costruttive di chi interpreta le istituzioni e le norme più come limiti che come garanzie per la propria libertà”
Minore chiarezza ho invece sui percorsi da intraprendere. Quali le modalità ed i modelli alternativi o integrativi a quello psicoanalitico?
Quel che è certo è che, al di là dei modelli, lo psicologo penitenziario può (e deve) agire un sapere ed un saper fare che non può prescindere dal tenere insieme l’unicità (l’individuo detenuto) e la duplicità (la coppia terapeutica), nonché la complessità della cornice (il carcere) che li contiene entrambi.